L’inferno della zolfara in “Carnàla”, il dipinto di Dino Vaccaro


Carnala di Dino Vaccaro

“Carnàla” – Epopea di un’infanzia vissuta nell’inferno della zolfara

Autore: Dino Vaccaro

Tecnica: Olio su tela 40 x 50

Recensione di Angela Chiazza

Di fronte ai quadri di Dino ritorni per soffermarti a cogliere ogni particolare che rivela e testimonia una realtà passata. Davanti a “Carnala” vieni attratto dal soggetto centrale del dipinto: gli occhi di un bambino che, come un sasso gettato nell’acqua, forma dei cerchi all’infinito. Lo sguardo del caruso invita l’osservatore ad allargarsi su tutta la tela ed espandersi attraverso il tempo e lo spazio, per tutte le generazioni. Sembra sussurrare: «Guardami, non passare oltre. Soffermati e guarda. Nei miei occhi c’è un triste passato che può servire al tuo presente. Guardami, non puoi ignorare ciò che ho vissuto. Se io fossi vissuto nel tuo tempo e tu nel mio…se potessimo scambiarci le esperienze, io prenderei parte dei tuoi sorrisi, sul mio viso cancellati, e tu testimonianza del mio dolore, affinché non accada più. Si può, attraverso i miei occhi. Guardami. Vedi i miei occhi, attraversali e rivedi ciò è stato. Hanno rubato la mia infanzia, mi hanno sradicato ai baci di mia madre. Le mie lacrime si sono consumate insieme alle sue. Non ho più padre, non ho più madre, non ho più casa. La mia vita è data in pegno che solo io posso riscattare(1). Ora il mio padrone è mio padre, la mia resistenza è mia madre, la zolfara la mia casa. Non ho più età, non ho più un nome, ora mi chiamano carusu. La mia pelle e’ bruciata dalla polvere dello zolfo, grisou lo chiamano, che arde fuori e dentro me. (2), Nasconde anche il colore del mio viso gonfio dei cazzotti della ribellione, hanno fatto di tutta la mia carne sfogo di animali istinti. Guardami, la mia bocca ancora profuma di latte e loro mi hanno dato da mangiare sale; mi hanno denudato e hanno coperto la mia intimità con uno straccio. Guarda, lì c’è il mio banco, che rimarrà vuoto perché mi hanno rubato il sapere e con esso il diritto di difendermi. Guarda, più in là sta il mio gioco, strappato alle mie mani insieme alla mia ingenuità ed ai miei sogni. Al suo posto mi hanno dato una pezza per difendere le mie esili spalle e un paniere da riempire, ogni giorno più pesante. Tengo stretto nelle narici l’odore delle ginestre: mi accompagna per un breve tratto, mi dà forza e speranza, mentre le mie fragili gambe scendono all’interno di quel buco nero. Poi il fetore forte dello zolfo cancella tutto. I miei occhi si abituano a fatica alla luce delle citalene. La paura si fa largo dentro al petto, sale e stringe la mia gola; il calore asciuga le mie lacrime, ma non il sudore freddo che scende lungo la schiena. Più scendo e più brucia ogni ricordo che sta fuori. Corpi nudi, irriconoscibili sembianze umane, mi passano accanto: una carnala. Alcuni sono contenti, si sentono uomini. Io desidero ritornare ad essere un bambino. Molti scappano, altri muoiono, ingoiati da una frana o traditi dalle forze. Il tanfo della morte è fuori e dentro di noi. Le mie dita non hanno più unghie e le mie mani diventano callose, come il mio cuore. Dai piedi scalzi sgorga dalle piaghe il mio sangue che colora di rosso lo sterrato. La fame mi attanaglia,le forze si affievoliscono. Quando giunge la sera io scappo fuori: come un animale che di notte diventa predatore, io caccio la luna e le stelle e assaporo l’aria pulita di polvere, di pianti, di urla e di morte. Sai che ancóra nel mondo ci sono bambini con i miei occhi. Bambini anche loro cresciuti presto ed invecchiati mai. Guardami e sii felice perché tu, oggi, sei solo quello che sei: un bambino». Questi sono i quadri di Dino: memoria e testimonianza.

1) Il “caruso” bambino, spesso in età scolare, che per pochi soldi (chiamato in gergo soccorso morto) viene ceduto dai propri familiari “in affitto” ai picconieri della miniera; i familiari venivano pagati in anticipo per cui si creava un debito che il ragazzo era obbligato ad onorare spesso lavorando come uno schiavo privato di ogni diritto.

2) È un gas caratteristico delle miniere di carbone e di zolfo, dove, poiché è più leggero dell’aria, si può anche trovare raccolto in sacche isolate nelle parti alte delle gallerie: è detto perciò gas di miniera

Recensione di Eugenio Giannone

“Carnàla e no surfara t’he chiamari, carnala, no di morti ma di vivi”. (A.Di Giovanni, Sonetti della zolfara,in Voci del feudo, Palermo 1938)

“Carnala”, Dino Vaccaro sintetizza molto bene una pagina di storia economico-sociale tra le più emblematiche della Sicilia.

Il lavoro è una benedizione ma per generazioni di Ciancianesi (e non solo) è stato una dannazione, la negazione della loro dignità e della loro essenza di uomini con un abbrutimento e uno sfruttamento che ancor oggi gridano vendetta. Non stupisce, quindi, che proprio il poeta Alessio Di Giovanni, figlio di proprietari di miniera di zolfo, la battezzasse carnàla (carnaio).

Il quadro è – dicevamo – una pagina di storia e si presta ad una facile lettura.

Esso vede in primo piano un caruso con sulle spalle uno stirraturi pieno di ganga, poggiato sulla chiumazzata per alleviare un carico impossibile per fanciulli di 7/15 anni (e forse più, perché si poteva rimanere carusi per tutta la vita non saldando il famigerato soccorso morto).Altre immagini sintetizzano le fasi del suo duro e penoso lavoro. Il caruso era l’anello più debole del lavoro in miniera ma non per questo meno importante. Esistendo una vasta letteratura in materia, riteniamo superfluo indugiarvi. A sinistra un banco di scuola con appoggiato uncuculiolu (cerchio) e un rampino a denunciare l’infanzia violata di un bambino cui sono state negate dal bisogno l’istruzione primaria e la spensieratezza con la dolcezza dei giochi. Al centro un altro caruso con un’acetilene in mano: c’è un errore, un errore di bontà: Dino gli ha messo le scarpe! Il fanciullo sembra dirigersi verso il forno in cui avveniva la fusione del minerale per ricavarne “balate” (accatastate al centro) o verso il boccaporto (vucca), della zolfara, che abbiamo definito inferno dei vivi. A sinistra, accanto alla vucca, dei ginisara. Infine, sulla destra, sopra il piccone – strumento di lavoro indispensabile per il pirriaturi, il biondo di una ginestra, l’unica pianta che cresceva in quelle lande brulle e che ingentiliva quel luogo triste, dove anche le donne prestarono la loro manovalanza e altro (costrette!)

La pittura come memoria e come denuncia d’una particolare temperie. Certo, oggi i carusi non esistono più ma quanti sono i fanciulli, nel mondo, che subiscono violenza e sfruttamento per un tozzo di pane amaro?

E’ questa la pittura che ci piace perché fa cultura, memoria e ci inchioda alle nostre radici, alle nostre responsabilità costringendoci a meditare sulla sorte di chi ci ha preceduto e dei nostri simili.

One Reply to “L’inferno della zolfara in “Carnàla”, il dipinto di Dino Vaccaro”

  1. Eccellente. Molto commovente. Bravissimi, Angela ed Eugenio!!!!
    Maledetto Governo Italiano! Maledetta Roma! Vergogna!
    Ha abbandonato la nostra bella Isola ed i suoi abitanti.
    Ci ha derubato di un futuro migliore costringedoci ad emigrare al freddo Nord.

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